Le dimissioni di Zingaretti segnano un passaggio cruciale per il futuro del Partito Democratico. Le parole forti pronunciate dal Segretario per motivare la sua decisione sono destinate ad aprire un dibattito difficilmente eludibile al quale tutti saranno costretti a partecipare e che potrà segnare, quale che ne sarà l’esito, la vita del partito nei prossimi anni.
È la prima volta nella storia della politica italiana che un leader rinuncia alla carica dicendo di vergognarsi della formazione politica di cui era il massimo responsabile.
Affermazione tanto più significativa, considerata la storia di Zingaretti. Che non è un esterno pervenuto per caso alla guida del PD, ma un personaggio organico al partito, nel quale ha seguito tutta la trafila, a partire da segretario dei giovani, salendo lentamente la scala gerarchica fino alla segreteria nazionale.
È evidente, comunque, che Zingaretti non intendeva dire che si vergognava del partito, ma che si vergognava della sua classe dirigente. Una classe dirigente che aveva ereditato da Matteo Renzi, il quale aveva preparato le liste elettorali e aveva selezionato i quadri dirigenti sulla base dei soliti criteri della appartenenza e della fedeltà.
Per Zingaretti sono stati due anni molto difficili. La rottura con la gestione renziana, al di là dei toni felpati, è stata molto dura. Con i gruppi parlamentari che rispondevano ad altri e che hanno reagito boicottando tutti i tentativi per ridare al partito un ruolo centrale nel Paese e nelle Istituzioni.
Ciò nonostante, in questi due anni, in tutti gli snodi importanti, la linea è stata coerente con la visione di un partito che ha cercato di ritrovare sintonia con il suo popolo di riferimento: la politica come servizio, invece che come potere; scelte strategiche orientate a privilegiare gli interessi del Paese più che quelli del partito.
È stato così nella decisione di sostenere il Conte 2 in coalizione con i 5 Stelle e con Liberi e Uguali. È stato così anche nell’ultima crisi, nella quale – fallito, per l’ostilità di Renzi all’esterno e per il boicottaggio degli orfani di Renzi all’interno il tentativo di un Conte 3 – non è rimasto che aderire all’invito del Capo dello Stato di assicurare un governo al Paese, al di là degli interessi di parte.
Assicurare la governabilità e garantire il sistema democratico è da sempre nel DNA del Partito Democratico.
Ma il disegno strategico non è cambiato: consolidare l’ancoraggio dell’Italia all’Europa e ricostruire, insieme ai 5 Stelle, un campo largo di centrosinistra che possa rappresentare gli interessi di tutta la comunità nazionale e, nel contempo, essere competitivo con il centrodestra nelle future tornate elettorali, politiche e amministrative. Sul piano interno costruire un modello organizzativo aperto al contributo di simpatizzanti ed elettori, in cui le idee, le decisioni, i progetti vengano dibattuti e diventino patrimonio comune non soltanto di tutti gli aderenti ma di tutti coloro che condividono le idealità del Partito Democratico.
È questa la missione che Zingaretti lascia in eredità al prossimo segretario che è auspicabile sia lo stesso Zingaretti, ma, in caso di confermata indisponibilità del segretario uscente, potrebbe essere un esponente, altrettanto autorevole, che si riconosca nella politica come servizio, che creda nella collegialità, nel pluralismo e nella apertura agli elettori e agli iscritti, che anteponga gli interessi dei cittadini a quelli del partito e gli interessi del partito a quelli personali.
Nonostante gli scetticismi diffusi, ci sono, nel PD, politici con questi requisiti, anche se non si propongono, in quanto non hanno il carrierismo fra le “qualità” più marcate.
E, comunque, in un partito vero – e il Partito Democratico è l’ultimo partito vero rimasto in Italia – i progetti, i programmi, il patrimonio culturale, i valori vengono prima delle persone e rappresentano l’unico, autentico collante che possa tenere insieme gli aderenti e trasformarli in una comunità politica autentica, orientata al bene comune della collettività nazionale.